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I recettori oppioidi sono una famiglia di recettori transmembrana accoppiati alla proteina G che vengono fisiologicamente attivati da peptidi oppioidi endogeni come encefaline, endorfine e dinorfine. Con il termine oppioidi si indica in generale un’ampia classe di molecole in grado di legarsi appunto ai recettori oppioidi, i quali si dividono in tre sottoclassi: recettori µ, δ e . Questi svolgono azioni diverse tra loro e sono coinvolti nella regolazione di importanti funzioni sia comportamentali che omeostatiche, come:
In particolare, i recettori µ sono coinvolti in processi di:
I recettori k sono collegati a fenomeni di analgesia, disforia e diuresi, mentre i recettori δ sono legati ad analgesia e probabilmente dipendenza.
Il naltrexone è un antagonista oppioide puro non selettivo con l’affinità più alta per i recettori µ. Ha una struttura analoga a quella della morfina, ma la sostituzione dell’N con un gruppo ciclopropilmetile gli conferisce il comportamento antagonista. Pertanto, tale molecola si lega al recettore oppioide, ma anziché attivare la cascata di segnali biochimici dovuta all’attivazione del sistema recettoriale, non produce alcun effetto limitandosi a bloccare il sito di legame ed impedendo l’azione di molecole agoniste.
Naltrexone
Gli antagonisti dei recettori oppioidi sono comunemente utilizzati per contrastare gravi effetti secondari (deficienza respiratoria, overdose) indotti dagli agonisti oppioidi. In particolare sono impiegati nel trattamento farmacologico della dipendenza da oppioidi e dell’alcolismo. Ciò nonostante, sono molto studiate anche altre applicazioni terapeutiche degli antagonisti dei recettori µ, che includono:
Il naltrexone viene principalmente impiegato per combattere le dipendenze da droga e alcool.
L’effetto antagonista sui recettori oppioidi aiuta a prevenire le ricadute in pazienti con dipendenza da droghe, in quanto abolisce gli effetti psicotropi e di rinforzo dovuti all’assunzione degli oppioidi. Per questo si tratta del farmaco di scelta per il trattamento dell’eroinopatia. Il naltrexone infatti occupa il sito recettoriale evitando l’interazione agonista-recettore e spiazzando dal recettore l’agonista stesso. Il suo utilizzo è diverso rispetto all’analogo naloxone, antagonista oppioide con struttura molto simile, utilizzato nel trattamento d’urgenza in caso di overdose. Il naltrexone infatti ha un’azione più lenta e risulta più indicato nella terapia di mantenimento dello stato drug-free in soggetti tossicodipendenti già preventivamente disintossicati dagli oppiacei, perché in caso contrario si potrebbero scatenare sindromi di astinenza.
Per quanto riguarda l’abuso di alcool, l’etanolo agisce su numerosi sistemi neurochimici nel cervello, interferendo con l’azione di importanti neurotrasmettitori come:
Questi ultimi sono coinvolti negli effetti di rinforzo e ricompensa legati all’assunzione di alcool e sono responsabili di possibili ricadute dopo prolungati periodi di astinenza in persone dipendenti. È stato dimostrato infatti che l’etanolo aumenta in modo significativo il rilascio di oppioidi endogeni, in particolare β-endorfine, che determinano effetti piacevoli e di euforia in seguito all’assunzione di bevande alcoliche. Il naltrexone, prevenendo l’effetto delle endorfine e bloccando così le “risposte positive” del bere, è efficace nel ridurre il consumo di alcool e il rischio di ricadute in pazienti dipendenti, aiutando a mantenere uno stato di astinenza2.
L’uso del naltrexone per via orale è autorizzato in numerosi paesi e prevede una dose giornaliera di 50 mg. Esistono in commercio diverse specialità medicinali per uso orale (Antaxone, Nalorex, Narcoral). Quando il naltrexone viene assunto per via orale, viene rapidamente metabolizzato in 6-β-naltrexolo, un metabolita molto attivo che però aumenta l’incidenza di effetti collaterali. Ciò spesso pregiudica l’aderenza dei pazienti al trattamento. Per questo motivo sono state sviluppate anche formulazioni iniettabili ed impianti a rilascio prolungato (es. Vivitrol), i quali evitano il first-pass epatico del farmaco riducendo la percentuale di abbandono della terapia a causa degli effetti collaterali3.
L’obesità è una patologia cronica che ha raggiunto proporzioni epidemiche nei paesi sviluppati. Poiché l’obesità è associata a numerose complicazioni che sono vere e proprie patologie (diabete, malattie cardiovascolari, ipertensione, depressione, ictus, cancro), essa si configura come un serio problema di salute pubblica. Per questo motivo molte industrie farmaceutiche sono impegnate da tempo nello sviluppo di nuovi farmaci in grado di intervenire sui meccanismi che regolano il bilanciamento energetico. Sovrappeso e obesità, infatti, sono causate da uno sbilanciamento nel metabolismo energetico, il quale dipende essenzialmente dall’equilibrio tra due fattori:
Nonostante gli importanti passi avanti fatti per capire il meccanismo centrale che regola il bilanciamento energetico, ad oggi esistono solo due farmaci approvati per il trattamento a lungo termine dell’obesità (sibutramina e orlistat), il cui uso è però limitato dalla loro modesta efficacia e dagli effetti collaterali importanti.
Da tempo è noto che il sistema oppioide gioca un ruolo nella regolazione dell’appetito a livello del sistema nervoso centrale, modulando gli aspetti della palatabilità del cibo e della gratificazione attraverso il rilascio di β-endorfine nell’ipotalamo4.
Le prime evidenze che gli antagonisti dei recettori oppioidi fossero in grado di ridurre l’assunzione di cibo a breve termine nei ratti risalgono ai primi anni ’80. In seguito, studi preclinici eseguiti su modelli animali hanno confermato la capacità del naltrexone di ridurre la quantità di cibo assunto e il guadagno di peso sia in animali magri che in quelli obesi5.
I successivi studi clinici condotti sull’uomo non hanno tuttavia confermato questa azione dell’antagonista oppioide, il quale pur avendo un blando effetto nella riduzione di peso in soggetti normali, risulta quasi inefficace negli obesi5,6.
Ciò nonostante, bisogna considerare che i meccanismi fisiologici che regolano l’intake calorico e il peso corporeo sono molto complessi ed altamente integrati. Per questo la ricerca si è concentrata sull’uso di una combinazione di farmaci in grado di agire contemporaneamente su meccanismi diversi, in modo da aumentare l’efficacia e ridurre gli effetti collaterali.
Il nucleo arcuato dell’ipotalamo nel cervello svolge un ruolo importante nella regolazione del bilanciamento energetico e del peso corporeo7. Qui è presente un gruppo di neuroni, denominati POMC (pro-opiomelanocortina), che una volta attivati secernono l’ormone a– MSH (a-Melanocyte-Stimulating Hormone), il quale riduce l’assunzione di cibo ed aumenta il dispendio energetico esplicando di fatto un’azione anoressizzante. Questa azione viene regolata attraverso un sistema autoinibitorio di feedback. I neuroni POMC infatti rilasciano anche β-endorfine, le quali agiscono su recettori oppioidi posti sui neuroni stessi bloccandone l’azione. I neuroni POMC vengono attivati dalla dopamina.
Il bupropione è un farmaco antidepressivo che agisce sul sistema nervoso centrale come inibitore del reuptake della dopamina. Grazie a questa capacità, il bupropione è in grado di mantenere più a lungo lo stimolo che attiva i neuroni POMC e gli studi clinici condotti sull’uomo ne hanno dimostrato l’efficacia nel determinare una riduzione dell’assunzione di cibo e una modesta riduzione di peso, che tuttavia tende a raggiungere un plateau dopo 24 settimane di trattamento6.
Al fine di sostenere l’azione del bupropione è stata quindi pensata un’associazione tra questo farmaco e il naltrexone, il quale, andando ad antagonizzare l’azione delle β- endorfine del sistema autoinibitorio dei POMC, blocca il meccanismo di feedback dei neuroni amplificando gli effetti del bupropione.
L’associazione bupropione-naltrexone è attualmente nella fase III della sperimentazione clinica, che ha lo scopo di valutarne l’efficacia e la sicurezza a lungo termine su un campione ampio di popolazione.
Gli studi finora condotti sono comunque molto promettenti. La combinazione dei due farmaci, infatti, è risultata efficace nel determinare una significativa perdita di peso nei pazienti sottoposti al trattamento, sia in confronto ad un placebo che rispetto alle monoterapie con solo bupropione o solo naltrexone8,9.
Il trattamento con la combinazione dei due farmaci aumenta in modo significativo la riduzione di peso e si può inoltre osservare che tale calo non raggiunge un plateau dopo 24 settimane di trattamento (Fiugura 1). Ciò fa presumere che la terapia possa essere efficace anche per tempi più lunghi e che possa dare risultanti più consistenti. Le dosi ad oggi testate sono un associazione composta da Bupropione in forma di rilascio prolungato a 400 mg al giorno e, rispettivamente, 16 e 32 mg al giorno di naltrexone a rilascio immediato.9 I due dosaggi sono risultati ad efficacia paragonabile. Occorre sottolineare comunque la natura preliminare del risultato non tanto per quanto attiene alla efficacia, ma alla sicurezza a lungo termine. Tali dati saranno disponibili solamente al termine della Fase III dello studio tuttora in corso.9 Una associazione a 48 mg di naltrexone è stata abbandonata per uno scarso rapporto tra efficacia e sicurezza di uso.
In conclusione, benché il naltrexone sia associato ad una minima perdita di peso quando usato da solo, questo antagonista oppioide assume una interessante potenziale attività nel trattamento dell’obesità quando viene combinato con un attivatore dei neuroni POMC come il bupropione.
Figura 1. Perdita di peso con bupropione, naltrexone e associazione bupropione-naltrexone. P+P placebo; NAL+P solo naltrexone; BUP+P solo bupropione; BUP+NAL associazione bupropione-naltrexone.
Oltre agli usi autorizzati per il trattamento delle dipendenze da droga e alcool, è andato diffondendosi negli anni un crescente interesse nei confronti di un utilizzo “off-label” del naltrexone in terapie sperimentali contro numerose patologie.
Queste terapie si basano sull’utilizzo di basse dosi di naltrexone (3-4,5 mg/day), somministrate prima di dormire e per lunghi periodi. Questo particolare regime farmacologico sarebbe in grado di potenziare il sistema immunitario e stimolare il benessere psicologico10.
È stato osservato che, quando somministrato a basse dosi di 3-4,5 mg/day, il naltrexone è in grado di incrementare l’espressione dei recettori oppioidi e la concentrazione delle β– endorfine e metencefaline circolanti a livello centrale11. Mentre la dose piena di naltrexone (50 mg/day) produce un blocco costante dei recettori oppioidi, si ipotizza che la dose ridotta determini un blocco di poche ore, dopo il quale si assiste ad un fenomeno di rebound, cioè un potenziamento del sistema oppioide con un aumento della densità dei recettori µ e k e della disponibilità di β-endorfine e metencefaline12,13. Tale “super- sensibilizzazione” dei sistemi oppiodi porterebbe numerosi benefici all’organismo, in particolare potenzierebbe il sistema immunitario. È stato infatti osservato che i livelli di oppioidi endogeni in pazienti affetti da malattie reumatiche (artrite, lupus, gotta) sono drasticamente bassi, così come risultano ridotti tra il 10 e il 20% del normale le concentrazioni di β-encefalina in diverse patologie autoimmuni, tra cui fibromialgia e morbo di Crohn, e nella sclerosi multipla11.
Benchè finora si tratti solo di ipotesi e si attendano ancora studi che provino la reale efficacia del LDN, esistono comunque evidenze che fanno presumere che si tratti di un interessante approccio per la prevenzione e il trattamento di varie patologie in cui vi è una compromissione del sistema immunitario, come le malattie autoimmuni, alcuni tipi di cancro, l’AIDS e la sclerosi multipla.
Poiché è logico ritenere che l’amplificazione dei sistemi oppioidi promuova stati emozionali positivi a livello centrale, il LDN ha potenziali applicazioni anche nel trattamento di disturbi di natura psichiatrica, come depressione, autismo, autolesionismo.
Inoltre, sono in corso studi per valutare il trattamento con LDN in casi di malattia di Alzheimer, Parkinson e SLA.
Di seguito si riportano alcune evidenze relative all’utilizzo del LDN in diverse patologie.
Studi sul neuroblastoma condotti su animali hanno mostrato che il blocco intermittente dei sistemi oppioidi con naltrexone è in grado di ridurre l’incidenza del tumore, di ritardarne lo sviluppo e di allungare la sopravvivenza rispetto al controllo14. Questa azione potrebbe essere dovuta al fatto che β-endorfine e metencefaline sono in grado di potenziare l’azione delle cellule NK (Natural Killer) attraverso l’attivazione dei recettori µ posti sulle cellule stesse15. Si è osservato, inoltre, che le metencefaline stimolano l’espressione dei recettori dell’interleuchina-2 e i livelli sanguigni di questa, con conseguenti aumenti dei livelli di globuli bianchi, cellule NK, g-interferone, cellule T attive e altri elementi del sistema immunitario, che potrebbero contribuire nel ridurre la crescita tumorale e promuoverne la regressione16.
Interessanti risultati sono stati riportati nel trattamento dell’AIDS con LDN, il quale pare sia in grado di ritardare ed arrestare la malattia10.
I sistemi oppioidi svolgono un ruolo importante nella regolazione dei fluidi gastrointestinali, nella percezione del dolore e nei meccanismi infiammatori. Un recente studio pilota ha mostrato che il LDN è in grado di determinare una significativa riduzione dei sintomi ed un miglioramento della qualità di vita in pazienti affetti da malattia di Crohn17.
Uno studio pilota condotto per 6 mesi su 40 pazienti affetti da sclerosi multipla ha mostrato una progressione della malattia in un solo paziente, mentre negli altri è stata riscontrata una significativa riduzione della spasticità e contemporaneamente un aumento dei livelli di β-endorfine18.
Il naltrexone è considerato un farmaco sicuro, non dà dipendenza ed è generalmente ben tollerato. A dosaggi terapeutici (50 mg/day) può determinare effetti secondari modesti e di breve durata che includono nausea, vomito, dolori addominali, affaticamento, vertigini e mal di testa. A dosi molto elevate (300 mg/day) il farmaco può essere epatotossico. Si preferisce quindi sconsigliarlo in caso di insufficienza epatica.
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